Un altro argomento molto attuale per noi genitori che spesso dobbiamo affrontare e correre ai ripari, sono le "parolacce" che sentiamo pronunciare dalla boccuccia dei nostri figli.
Ringrazio "Uppa-Un pediatra per amico" per la sua collaborazione e per questo articolo molto interessante.
Conoscere le emozioni - Rivista n. 4 Luglio-Agosto - 2011
Che belle le brutte parole
di Paolo Roccato
Scrive una mamma:
Siamo molto preoccupati, perché nostro figlio di cinque anni s’è messo a far parte di un gruppetto di bambini che passano il tempo a dire parolacce, continuando a sghignazzare come deficienti. All’inizio anche a noi qualche volta scappava da ridere. Poi abbiamo cercato di educarli, ma invano. Il loro modo di fare è irritante, monotono, noioso, inopportuno. Più li sgridi e più ci provano gusto. In casa c’è continua tensione, per le figuracce che ci fanno fare con amici, parenti ed estranei. Così non può continuare, ma non sappiamo più cosa fare.
Dire parolacce in modo sistematico è detto, nel linguaggio comune: “Parlare sporco”, e nel linguaggio scientifico: “Coprolalìa”, dal greco “Copros” (feci, cacca) e “Lalìa” (atto del chiacchierare). Il piacere di dire parolacce somiglia molto al gusto di sporcarsi tutti giocando. Anzi: al gusto di giocare a sporcare se stessi e gli interlocutori.
Possono essere molti i significati e le radici di questo comportamento.
Tutti i bambini per un lungo periodo della vita si trovano nell’impossibilità di tenersi puliti. E tutti sono sottoposti a pressioni educative esplicite e implicite verso la pulizia corporea, che per tutti è, dal loro punto di vista soggettivo, “innaturale”.
Col tempo, oltre alla percezione di piacere e benessere legata al trovarsi belli puliti, i bambini progressivamente interiorizzano il doversi tenere puliti e il ripulirsi dopo essersi sporcati. Ogni genitore sa che è un processo lungo, con dei punti più ostici e resistenti, quali lavarsi i denti, il collo e le orecchie. Ma per tutti, prima o poi, quel processo di interiorizzazione arriva a un sufficiente compimento.
Spesso è a quel punto che comincia il gusto di parlare sporco: verso i 3–4 anni, quando si stabilizza il controllo degli sfinteri; più ancora verso i 5–6 anni, quando si sono apprese bene le pratiche dell’igiene personale; e poi in adolescenza, nell’affrontare il difficile compito di lasciare il mondo infantile nel suo insieme, per aprirsi a un modo da grandi.
Feci e urina sono cose che da dentro, dove sono prodotte, vengono “espresse” (talvolta scagliate) all’esterno. Sono un “non–me ”, ma “prodotto da me”. Nel processo di formazione, espulsione e ammirazione di feci e urine possono attivarsi molti tipi di piacere: piacevole senso di pienezza, prima, e di sollievo dopo lo svuotamento del corpo; curiosità di sapere, per così dire, “cosa bolle in pentola” prima dell’espulsione; sorpresa di sentire e vedere il prodotto di tanto lavorio; piacere sensoriale nel contatto con il “prodotto finito”, caldo, consistente, odoroso (per tutti è sgradevole l’odore delle feci e delle urine altrui, non delle proprie); piacere di controllare e dominare attivamente un processo interno–esterno basato anche su automatismi.
Tutti piaceri che nel normale processo di crescita devono essere abbandonati, drasticamente ridotti, o radicalmente trasformati. Una modalità fondamentale di trasformazione è quella simbolica, che può avvenire, per esempio, nel manipolare materiali artistici (creta, pongo, colori, carta, sabbia); nell’accumulare (denaro, figurine, pupazzi, francobolli); nel creare ed esprimere cose magari immateriali come la poesia; nel lanciare moti aggressivi.
Il livello più facile di trasformazione simbolica di questi piaceri è “parlare sporco”.
Dire parolacce, dunque, può far parte dell’importante, lungo processo di abbandono di modi e piaceri arcaici e di ricerca di modi e piaceri evoluti, più “da grandi”. È l’invenzione di una specie di via di mezzo: ritornare al piacere di sporcarsi e di sporcare da poco lasciato nella sua concretezza, per farlo in un modo nuovo, simbolico, più innocuo.
Col “parlare sporco” si prova il gusto di sentirsi e di sancire pubblicamente di essere diventati “grandi”. È come se i bambini e i ragazzi dicessero: “Giochiamo a fare i bambini piccoli, che si sporcano e se la fanno addosso. Ma noi, con questi gesti caricaturali e queste parole eccessive, proclamiamo che il nostro stare nella cacca non è per incapacità (com’era fino a poco tempo fa), ma lo facciamo apposta, per gioco.
È un ritorno “scherzoso” a modalità arcaiche, sia per goderne ancora sia per sancire di esserne emancipati.
In gruppo parlare sporco dà più gusto non solo per l’effetto “cassa di risonanza” che potenzia l’impatto, ma soprattutto perché il gruppo fa da specchio multiplo, in cui ognuno si vede riflesso negli altri da molte prospettive. Se uno deride gli aspetti infantili, tutti si vedono ad un tempo derisi, ma per gioco, e deridenti, ma per davvero. E tutti insieme si contrappongono a quelli che non fanno parte del gruppo, ad un tempo umiliati come ingenui bimbetti e scandalizzati come adulti seriosi che non capiscono il gioco. L’impressione che le parolacce fanno sugli altri è sentita come fosse la misura dell’emancipazione dei membri del gruppo. È per questo che più li si sgrida, o più ci si scandalizza, e più quelli ci provano gusto.
Qui si innesca lo specifico piacere del trasgredire che fa sentire straordinaria un’azione solo perché è proibita. Fa sentire forti, furbi, “fighi”, superiori all’autorità che sancisce le norme e controlla che siano rispettate.
L’imbarazzo e la riprovazione degli altri aumentano il piacere, perché danno un senso di potenza, col gusto di ribaltare i rapporti di potere. È un modo per acquisire a buon mercato un elevato senso di sé e del proprio valore. È un collocarsi sopra le regole, sentendosi “super–grandi”. Deridere regole e convenzioni diventa un rafforzativo del sentirsi emancipati (non dell’esserlo. Meno si è realmente emancipati e più si ha bisogno di esibire la propria emancipazione). Via via che bambini e ragazzi diverranno realmente più emancipati, progressivamente diminuiranno i loro bisogni di proclamarsi “grandi”, perché sentiranno di esserlo davvero. Con l’aumento di questa consapevolezza c’è da aspettarsi, fra molte altre cose, che il bisogno di parlare sporco diminuisca.
Spesso le parolacce vengono “scagliate” contro qualcosa o qualcuno, fornendo il piacere di attivare la propria aggressività tutto sommato senza gravi conseguenze.
C’è poi il sesso, che incuriosisce e intimorisce. Irridendolo e trattandolo come fosse tutt’uno con cacca e piscia, ci si può illudere (e darsi le arie) di porsi in posizione “superiore”.
Ecco chiarito perché quei bambini “sghignazzano come deficienti”: per questo miscuglio di beffarda strafottenza nel trasgredire; di superamento di condizioni arcaiche ancora recentissime; di riattualizzazione di quelle stesse condizioni in modi nuovi, simbolici; di senso di superiorità a buon mercato; di ribaltamento dei rapporti di potere; di irrisione della sessualità; di sfogo dell’aggressività senza conseguenze concrete. Davvero un gusto matto!
Che fare?
Se in casa abitualmente si dicono parolacce, non si può pretendere che i figli non lo facciano. Sarebbe ancora più sciocco dire che loro non possono perché sono piccoli: rafforzeremmo l’idea che dire parolacce dà la patente di grandi.
Noi educatori, tanto per cambiare, ci troviamo in difficoltà. Può aiutarci la consapevolezza che dire parolacce può far parte di un processo evolutivo importante. Non è da pensare, però, che bambini e ragazzi abbiano bisogno di parlare sporco. Loro bisogno è quello di evolvere, preparandosi alla vita futura di adulti. Se per un certo periodo parlano sporco, possiamo comprenderne alcuni motivi. Questo non vuol dire che dobbiamo venir meno ai nostri compiti educativi, ma che dobbiamo educare con lungimiranza.
È buona cosa, allora, segnalare con chiarezza e con fermezza che le parolacce non si dicono, soprattutto in certi contesti (scuola, estranei, cerimonie). È giusto rimproverare chi dice parolacce particolarmente “violente”. Ma può essere controproducente innescare un tira e molla sulle parolacce, perché potrebbe risultare uno stimolo in più per un “parlare sporco”: garantendo una sicura reazione dei “grandi”, garantisce l’efficacia nel far sentire “superiori”.
Conviene favorire che i bambini distinguano cacca e piscia dal sesso, anche se gli organi sessuali si trovano “da quelle parti là”. Cacca e piscia sono davvero sporche, davvero da buttar via, davvero nel cesso, anche se è necessario farle. Quelle sessuali, invece, sono cose molto belle, buone, piacevoli, che vanno riconosciute nel loro valore e rispettate, perché hanno a che fare con l’amore e la vita.
Come azione collaterale, può essere allora utile fare una specie di aggiornamento di educazione sessuale, magari regalando un bel libro adatto all’età.
IL PIACERE DI “PARLARE SPORCO”Molti sono i piaceri di dire parolacce ( “Coprolalìa” o “Parlare sporco”), comportamento simile all’infantile sporcarsi e sporcare gli altri.
La sua insorgenza avviene spesso in corrispondenza di una buona strutturazione delle capacità di tenersi puliti: controllo degli sfinteri, verso i tre-quattro anni; igiene personale, verso i cinque-sei anni; affermazione della propria soggettività nella cura di sé, in adolescenza.
“Parlare sporco” è un attivare nuovamente lo sporcare e sporcarsi, ma in un modo più evoluto, simbolico.
Piacere principale è quello di fare gli equilibristi sul crinale del sentirsi ad un tempo sia già “grandi” e ancora “piccoli” sia non ancora “grandi” e non più “piccoli”
Altro piacere è quello di attivare la propria aggressività (scagliare contro gli altri qualche cosa che si forma nelle viscere: come le feci, così la rabbia), senza gravi conseguenze per sé o per gli altri
Ulteriore piacere è quello di trasgredire, aumentando molto a buon mercato il senso di sé e del proprio valore
C’è poi il gusto di irridere il sesso, che incuriosisce e intimorisce
Far parte di un gruppo di bambini che dicono parolacce dà un gusto matto: è come un intendersela fra “grandi”, sbeffeggiando sia i bambini piccoli (che si è stati) sia i grandi veri (che non si è ancora)
Come educatori dobbiamo essere chiari e lungimiranti.
Ciò che mi preme far comprendere è che non si può mai generalizzare in questo campo, e la professionalità dei docenti sta proprio nell'affrontare ogni singolo caso in modo adeguato.